Coruzzi/Platinette, il doppio che non si assomiglia

Sanremo è sempre Sanremo.  
La struttura è ripetuta, anno dopo anno, allo stesso modo: i giovani in gara, i big in gara, tutti in gara, le solite quattro canzoni già sentite e risentite. Poi però, a febbraio del 2015, succede qualcosa. Viene annunciata una coppia di cantanti inaspettata: Maurizio Coruzzi, meglio conosciuto come Platinette, e Grazia Di Michele, l'algida “professoressa” di canto dell'accademia di Amici, meno conosciuta dalle nuove generazioni per la sua attività canora.
Lo stupore per la coppia non arriva solo dalla presenza di Maurizio Coruzzi in versione cantante, ma per la canzone che portano, intitolata “Io sono una finestra”, una canzone dichiaratamente LGBTQI che – in breve – parla dei tormenti di una persona nata nel corpo sbagliato. Gli autori la raccontano come un modo per Maurizio Coruzzi di esporsi, per mostrarsi umano e non più solo personaggio. E lo stratagemma funziona: sul palco si presenta (s)vestito da sé stesso e appare come nudo, come se mancasse un pezzo. Essendo abituati a vederlo nei panni della drag queen Platinette, l'effetto di intimità emotiva riesce benissimo. Anche gli sguardi della Di Michele, che si perde un po' nella performance di lui, sono eloquenti e parlano della fragilità raccontata nel testo.
Il testo. Ecco. Il testo è una nota un po' dolente, il che è tutto dire. Nonostante veicoli il messaggio molto chiaro della ricerca di una vita normale per chi vive situazioni di conflitto (personale ed esteriore) con la propria identità e la propria sessualità, il testo è faticoso da affrontare. Pullula di parole che stanno andando in disuso e che quindi appaiono ai più sconosciute, come “iconoclasta” oppure “corrivo”. 
Nel bisogno di comunicare al mondo i propri conflitti e le proprie contraddizioni, i due autori sono caduti nella trappola dell'eleganza forzata, di quel vocabolario che (purtroppo) non è accessibile a tutti e anche un po' nella ripetizione di uno schema molto sfruttato e molto riconosciuto quando si tratta di parlare di storie LGBTQI: quello della malinconia a tutti i costi, della tristezza per una accettazione che fatica ad arrivare.


In un Festival già pieno di polemiche trite e ritrite come quello di quest'anno (fra la performance di Conchita Wurst in netta opposizione alla presenza della famiglia “normale” con 16 figli), “Io sono una finestra” regala agli ascoltatori un doppio effetto: per chi ne comprende il testo, per gli “addetti ai lavori” che ogni giorno si battono e combattono per far comprendere ad una società italiana un po' sorda quanto sia normale essere semplicemente sé stessi, la canzone lascia addosso una sorta di tenera amarezza. Si poteva dire meglio senza incorrere nel solito cliché di uomo combattuto? Sì.
Il secondo effetto crea un forte senso di rimpianto per un Maurizio Coruzzi cotonato e irriverente, ed è proprio qui che la canzone fallisce nel suo intento; se una persona conosce solo Platinette e non comprende che tolta la parrucca quello che rimane è un uomo comune, la canzone dovrebbe aiutare nell'elaborare questa informazione. 
Ma alla fine Maurizio Coruzzi è un uomo di 60 anni che fa parte ancora della “vecchia guardia”, quelle persone che per retaggio culturale vedeva l'omosessualità (e le sue declinazioni) come qualcosa da nascondere completamente o da buttare in faccia al mondo con tanto di parrucche e vestiti paillettati. Il buttare in faccia al mondo però questa volta è finito nell'armadio, e anche la musica – il linguaggio universale per eccellenza – è rimasta bloccata nella malinconia di un riflesso in una finestra appannata.

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